Pride Money

Questa è in parte una storia invecchiata male. È la storia di un’illusione di cui però eravamo certi fin dall’inizio: le aziende non sono attivisti ma vogliono far soldi. Di che ci sorprendiamo ora che si tirano indietro rispetto alle cause sposate fino a poco tempo fa?

Le aziende si sfilano dal brand activism. E va bene così.

Il Pride di San Francisco e il brand activism

-300.000 euro di sponsorizzazioni per il Pride di San Francisco, una delle più importanti manifestazioni di orgoglio della comunità LGBT+ al mondo: coloratissimo, ricchissimo, visibilissimo.

Una manifestazione perfetta per i brand per alimentare la propria visibilità nel mondo. Eppure, quelli che fino a poco tempo fa hanno investito in piani di D&I (diversity & inclusion) oggi si tirano indietro e tolgono finanziamenti al Pride e “scendono dal carro” (per citare Wired) di una causa sociale che fino a poco tempo fa era importantissima per loro.

A noi della moralità dei brand non importa niente – almeno non qui. Ciò che ci interessa è capire come il brand activism, da tecnica di marketing preferita sia caduto in disgrazia nel giro di pochi anni.

Com’è successo? Perché? È un errore o la fine di un’illusione collettiva? E soprattutto: cosa ci riserva il futuro?

Un passo indietro

La verità è che, come comunicatori, marketer e consumatori abbiamo sbagliato tutto. O meglio: abbiamo sbagliato strategia.

Facciamo un passo indietro: a dire che il brand activism era solo un modo diverso da parte delle aziende di far soldi lo dicevamo anche un po’ di tempo fa. Era febbraio 2023 e sul nostro blog pubblicavamo questo:

brand activism be2be

Brand Activism

Sanremo, Chiara Ferragni e i vantaggi del brand activism

Era il periodo in cui le quotazioni del brand Chiara Ferragni volavano alto, esistevano ancora i Ferragnez – pace all’anima loro -, vedevamo i volti di Leone e Vittoria e Sanremo era Sanremo.

Oggi, inutile ripeterlo, è crollato tutto. E infatti abbiamo seguito la vicenda da vicino con un altro articolo, questo:

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Che figura di media

Quello che ci interessava non era Chiara Ferragni in sé – perché manco ci piace sparare sulla Croce Rossa – ma la debacle del brand activism, ovvero della tendenza che ha caratterizzato alcuni brand negli ultimi anni: quella a non voler vendere (solo) la qualità di prodotti e servizi ma la loro morale e partecipazione a lotte e cause sociali. Una tecnica di marketing che, se non supportata da un motivo reale, è destinata a esplodere in faccia al brand che la sceglie.

È successo soprattutto con una manifestazione, il Pride ovvero la parata di orgoglio della comunità LGBT+.

Per anni moltissimi brand si sono accodati al Pride, per avvicinare la comunità di riferimento, investendo in visibilità con carri durante le parate e immagini arcobaleno per tutto il mese di giugno. L’obiettivo non era, come si è visto, la vicinanza effettiva a quei temi – meglio: non per tutti – bensì vendere di più perché quelle tematiche erano in trend.

A sbagliare, qui, siamo stati noi: comunicatori, agenzie di comunicazione, esperti e consulenti marketing. Siamo stati noi a elaborare le teorie di monetizzazione delle emozioni: fino a pochi anni fa, circa l’86% dei consumatori desiderava un marketing cause-driven, ovvero un posizionamento su temi sociali da parte dei brand. E questo era perfetto, perché i brand potevano non solo fidelizzare i consumatori ma soprattutto applicare il cosiddetto premium price, ovvero un aumento del costo del prodotto, che i consumatori erano disposti a pagare in virtù dell’investimento – emotivo? – del brand rispetto alla causa sociale.

Ecco lo storytelling che ha alimentato l’economia per molti anni. Ed ecco anche lo storytelling che la sta facendo calare drasticamente.

Il Pride di San Francisco è sintomatico di un fenomeno più diffuso: quando c’è crisi, non c’è causa che tenga.

Money money money

“È il capitalismo woke. I marchi si orientano verso segnali a basso costo e ad alta risonanza” come alternativa a una riforma autentica, ha detto Helen Lewis.

Significa, in breve, che dai brand non possiamo pretendere che facciano politica: il loro obiettivo, il motivo per cui aziende e brand esistono, è far soldi. Ovvero vendere. Il brand activism – che noi stessi abbiamo consigliato ad alcuni dei nostri clienti, nel tempo, quando funzionava – è un mezzo ulteriore per vendere.

Nel 2025, Axios ha condotto un sondaggio sulla percezione, da parte di aziende e Ceo, dei temi da cui prendere le distanze, quelli a cui partecipare e quelli, invece, su cui essere prudenti.

Mentre per alcune tematiche vengono percepite come poco rischiose – ovvero, si può prendere una posizione e fare investimenti di brand activism, ancora – altre sono rischiosissime e bisogna assolutamente evitare (+42% di rischio). Nella prima categoria rientrano le tematiche legate alla sostenibilità ambientale – e meno male – mentre nella seconda categoria, quella dei temi rischiosi su cui non pronunciarsi o prendere le distanze, rientrano le tematiche di D&I e LGBT+.

Attenzione! Le tematiche di diversità e inclusione non corrispondono a quelle LGBT+ ma vanno molto oltre, andando anche su persone con disabilità, minoranze etniche, politiche di sostenibilità e rispetto verso i dipendenti etc.

Una cosa buffa (?)

Il fenomeno della (mancata) discesa in campo è però prevalentemente statunitense e si è intensificato in particolare dopo la seconda rielezione di Donald J. Trump alla guida di Washington.

In Europa, invece, quella di sfilarsi dal Pride e dal brand activism sulle tematiche D&I è una moda che non ha ancora preso piede. E un motivo c’è.

Guardiamo il Milano Pride, il più importante e impattante a livello di visibilità nel nostro Paese: molti brand hanno tolto la propria sponsorizzazione.

Il caso più eclatante è quello di Amazon che l’anno scorso, nel 2024, addirittura portò le madrine del Pride, le gettonatissime Paola e Chiara, icone queer da sempre. Quest’anno, invece, si limitano a mandare una delegazione di dipendenti. Nulla di più.

Secondo gli ultimi dati, le aziende che si stanno sfilando dal brand activism in particolare LGBT+ sono per il 59% quelle che hanno appalti pubblici con il Governo Statunitense o rapporti molto stretti con la sua amministrazione.

Sempre restando sull’esempio di Milano, invece, i brand che non solo hanno confermato la presenza tra gli sponsor e i supporter ma anzi hanno aumentato i loro investimenti sono, non a caso, i brand di moda, make-up, cultura.

Perché? Forse perché ci tengono di più, può essere. Ma non sarebbe peccato mortale dire che il target delle aziende di questo genere è in gran parte formato da consumatori politicizzati, di tutti i generi, e molto vicini a queste tematiche: non l’automobilista statunitense che beve Bud Light ruttando, insomma, ma persone che si truccano (magari anche ruttando, ma nell’iconografia non ci stava).

Anche questo è brand activism, ed è giusto così. L’importante, pro futuro, è ricordare l’obiettivo di tutto questo: i brand non fanno politica, i brand fanno ciò che piace ai propri consumatori, sentendo lo spirito del tempo.

Giusto? Sbagliato? Dipende: cosa dice la strategia?

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