Intelligenza artificiale e marketing. Quando la leva che funziona di più è la parola che non vogliamo sentire
“Ciao, ricevi questo messaggio perché sei indicato come un contatto di emergenza dell’iPhone di Jim. L’Apple Watch di Jim ha registrato una caduta alle 5 del mattino […]”.
Questo è in sostanza lo spot del colosso di Cupertino lanciato lo scorso anno per promuovere la funzione della chiamata d’emergenza. Lo spot mostra immagini scure di boschi, la voce artificiale che si sente comunicare il messaggio è quella tipica delle chiamate al 911, il numero d’emergenza degli USA e il tutto avviene senza musica, senza azione, senza neppure vedere un essere umano.
Cosa sta facendo Apple in questo spot? Non sta vendendo direttamente il prodotto ma una funzione dello stesso, e nemmeno questo: sta vendendo un’emozione, una delle più antiche del mondo. Sta vendendo la paura, la paura di non avere l’Apple Watch al polso quando si esce per una corsa nel bosco, o si prende un autobus o si va a ballare di sera.
Lo spot fece molto discutere al momento dell’uscita, perché dare la sensazione che l’acquisto di un prodotto sia una questione di vita o di morte forse è un po’ troppo spregiudicato. Ma è così che funziona il marketing anche con altre emozioni: allegria, piacere, tenerezza. Perché allora ci scandalizziamo quando si usa la paura come leva di comunicazione?
Semplicemente perché vogliamo fingere che non esista, non provarla. Per questo, quando la incontriamo, funziona così bene.
A cosa serve la paura?
Facile: a sopravvivere. Quando avvertiamo un pericolo abbiamo paura per la nostra sopravvivenza, abbiamo paura che accada qualcosa di tremendo a noi o ai nostri cari. Quindi il nostro corpo – spesso prima ancora della nostra testa – è portato automaticamente ad agire: corriamo se qualcuno ci insegue, allunghiamo il braccio se la bottiglia di vetro sta per cadere dal tavolo, urliamo “attenzione” quando un’auto davanti a noi fa una svolta brusca.
Ecco, quindi, perché il marketing della paura funziona: perché la reazione è immediata, impulsiva, genera un desiderio puro di avere qualcosa per prevenire il peggio.
Ecco, quindi, perché lo spot Apple Watch citato all’inizio funziona: perché chiunque vada a correre – anzi, no: chiunque esca di casa – guardandolo pensa “potrebbe succedere anche a me, quindi voglio quell’oggetto”.
Avevamo un po’ anticipato quest’argomento parlando di FOMO – se vi interessa lo trovate qui – ma vediamo un po’ quali sono le regole principali per fare un buon marketing della paura.
Come funziona il marketing della paura
Ci sono alcune cose da fare e alcuni step da cui passare per lanciare un buon messaggio sfruttando questo tipo di marketing:
- Individuare una paura concreta e comune a tutti
Non può essere qualcosa di nicchia ma qualcosa di universale (es. la morte, giusto per citare una fastidiosa tendenza comune a tutti gli esseri umani). E attenzione: non può essere generica, ma rappresentare un avvenimento o comportamento concreto (es. la caduta durante la passeggiata nel bosco dell’Apple Watch).
Questo solitamente lo fa un buon Content.
- Il prodotto è la soluzione
Questo si spiega bene con il famoso spot contro l’AIDS di alcuni anni fa il cui claim era “Se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”. In quel caso specifico non si parlava di un prodotto ma di un servizio, ovvero la prevenzione.
Per individuarlo bene, serve uno Strategist.
- La minaccia è immediata, dev’esserlo anche la reazione
Il pericolo dev’essere concreto e imminente, dunque il messaggio deve generare un certo senso di urgenza, non bisogna perdere tempo, rimuginare troppo su prezzo, necessità effettiva, competitor etc.: bisogna agire subito, prima che il peggio accada.
Ecco che arriva, per esempio, l’ADS Strategist.
Facciamo un esempio: chi ha paura dell’AI?
Paradossalmente il suo inventore. Ma andiamo per gradi.
Il 24 febbraio Sam Altman, uno dei creatori di OpenAI (la società di ChatGPT, per intenderci) pubblica una lettera intitolata Prepararsi all’intelligenza artificiale generale e oltre dove per AGI si intendono gli algoritmi di livello almeno pari a quello dell’essere umano che oggi non esistono (ma potrebbero, domani).
Nella lettera, veniamo al dato interessante, Altman preconizza la nascita di un’intelligenza artificiale pari a quella dell’uomo e soprattutto autogenerante, ovvero capace di nascere e migliorarsi da sé senza l’apporto di esseri umani che la programmino. Dice, in particolare, ““La Agi porterà con sé anche dei seri rischi in termini di abusi, gravi incidenti e sconvolgimenti sociali. Considerato però quanto è vasto il potenziale positivo della Agi, non pensiamo che sia possibile o desiderabile che la società ne interrompa per sempre lo sviluppo”.
Poi lo scambio sulla Future of Life Institute continua con un interessante scambio con Elon Musk, l’altro fondatore di OpenAI, ma questa è un’altra storia. Quello che è interessante notare sono i passaggi logici del ragionamento di Altman: parte dicendo che l’intelligenza artificiale può diventare un pericolo per l’umanità e arriva a dire che potrebbe non esserlo, se viene dato modo proprio all’intelligenza artificiale modo di crescere e trovare in sé stessa i propri limiti.
Geniale. Geniale perché dice “io sono il pericolo – e di questo dovreste aver paura – ma se mi lasciate fare sono anche la soluzione – e questo cura la vostra paura e vi fa comprare il mio prodotto, ChatGPT”.
Insomma: la paura è una delle migliori leve di comunicazione possibili, si basa su un sentimento che l’essere umano non può sradicare da sé stesso. Al massimo, l’unico meccanismo di difesa è quello di chiudere gli occhi e far finta che non esista. E comprare.
Quando riapriremo gli occhi, allora, si vedrĂ .