Marketing, shitstorm e quell’influencer bionda che non possiamo nominare
Qualunque crisi voi stiate vivendo in questo momento della vostra vita – amorosa come quella descritta nel nostro ultimo articolo, lavorativa, di amicizia o altro – non potete competere con l’influencer più famosa del mondo che passerà proprio un Natale di Media.
Se vivete fuori dall’universo e non lo sapete è scoppiato un nuovo caso mediatico legato a un certo pandoro, di un certo brand, pubblicizzato da una certa influencer: una campagna mediatica pensata per supportare l’Ospedale Regina Margherita di Torino. Oggi l’Antitrust, dopo un anno dal lancio di quell’iniziativa, si pronuncia contro il brand e la famosa influencer multandoli per quasi un milione e mezzo di euro totali.
L’iniziativa è stata pensata per il Natale 2022 e rovinerà il Natale 2023 della famiglia più famosa d’Italia che proprio in questi giorni sta affrontando una shitstorm piuttosto importante.
Al di là delle posizioni singole che rispetto al caso specifico ognuno di noi può prendere, ciò che sta accadendo evidenzia alcuni aspetti di comunicazione estremamente interessanti e peculiari.
Prima di procedere, facciamo un passo indietro.
Shitstorm: due esempi e come si sono risolti
Facciamo riferimento a un’uscita che non è venuta male: di più.
Siamo a settembre 2013 e Guido Barilla – sì, proprio quello della pasta – in una famosa intervista a La Zanzara su Radio 24 dice “non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale” e non contento rincara la dose dicendo “se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono, purché non infastidiscano gli altri”.
La posizione di Barilla e del suo Guido era così forte e radicata che subito arrivano valanghe di comunicati stampa di scuse in cui si diceva che il signor Barilla era stato frainteso.
Ma oltre alle scuse Barilla fa di più: nel 2019, con l’AD Claudio Colzani, il colosso della pasta inizia a sponsorizzare attività e iniziative LGBT+ friendly e arriva a ottenere il punteggio massimo nell’equality index della Human Rights Campaign.
Voi direte: dai, l’inciampo è servito a fare qualcosa di buono per il mondo. Anche il resto del mercato se ne sarà accorto e avrà smesso di usare la tecnica “purché se ne parli”.
Mmh, no.
Sulla scia dei risultati di ricerca di Barilla – che in quei giorni era probabilmente il brand più ricercato su internet del nostro Paese – un’altra enorme società lancia una campagna che, se possibile, fa ancora peggio.
Questa volta siamo nel 2015 e Melegatti – quindi non l’ultimo forno di paese in provincia di Catanzaro – pubblica questo capolavoro:
Prima Melegatti si attribuisce la campagna dicendo “è tutto vero, l’abbiamo fatto noi!” poi fa quello che spesso capita: trova un capro espiatorio, l’agenzia, e scarica su quello tutte le responsabilità.
Si scatena la shitstorm, tutti indignatissimi sui social, atteggiamento super polarizzato e poi…e poi niente, è finita così. Anche Melegatti si scusa e prova a salire sul carro dell’inclusione con un rainbow washing da manuale.
Quello che ci insegnano queste dichiarazioni e queste campagne che scatenano piogge di insulti – per usare un eufemismo – e si sgonfiano come palloncini ormai stanchi della festa di compleanno del giorno prima è: potete dire ciò che volete, l’importante, poi, è chiedere scusa con atteggiamento contrito.
E voi a questo punto vi domanderete: cosa c’entrano questi brand con l’influencer bionda e la beneficenza?
Siamo molto chiari e pronunciamo solo questa volta il suo nome: Chiara Ferragni è un brand e come tale va trattata, con tutti i pro e i contro.
Marketing, beneficenza, errori e scuse
L’ambito della beneficenza con gli influencer è probabilmente la cosa più scivolosa da fare dopo la pietra bagnata al mare, la vetta più alta a cui arrivare dopo il debito pubblico italiano. È, insomma, l’attività nemesi di un marketer. Ci sono moltissimi sentimenti umani in gioco – empatia, compassione, posizionamento, narcisismo etc. Tutte leve che il marketer deve utilizzare e non perché sia una persona cattiva che pensa solo ai soldi ma perché dietro queste iniziative c’è sempre – sempre – un obiettivo di business. Foss’anche solo un ritorno d’immagine e di posizionamento del brand.
Nel caso del marketing e della beneficenza, il brand deve sempre ricordarsi alcune cose fondamentali:
- Vicinanza vera al tema, quindi niente rainbow, green o pink washing perché alla lunga la reale natura aziendale viene fuori. Di queste tre espressioni magiche avevamo già parlato in un altro articolo sul Brand Activism.
- Cultura sul tema, l’iniziativa non può essere un unicum ma inserirsi in un percorso più ampio, più complesso ma certamente più sincero, dentro e fuori l’azienda
- Trasparenza, trasparenza, trasparenza: il brand non può prendere in giro chi lo segue e lo ascolta perché, se si gioca la fiducia dei consumatori e dei suoi follower su cose di questo tipo, non si torna più indietro. Quella macchia non verrà mai via.
Ecco, trasparenza e fiducia. Le due parole chiave del Natale 2023. Guardate questo grafico.
Voi direte: sostanzialmente è in crescita. Aspettate, venite più vicino.
Avete capito adesso? No? Allora avvicinatevi ancora.
Questi sono tre grafici che mostrano l’andamento del following sulle pagine social dell’influencer bionda, rispettivamente in un anno, tre mesi e 7 giorni.
In realtà, la storia dell’Antitrust che stava indagando sul brand di dolciumi e sull’influencer bionda serpeggia già da tempo, era una nuvola che si sentiva sempre più vicina già da tempo. Eppure i follower non erano mica spariti.
La curva discendente inizia solo a dicembre 2023, a seguito dell’annuncio – e quindi dell’ufficializzazione – della multa: l’influencer ha mentito ai suoi follower.
Ed è questo il punto focale.
Il vero errore dell’influencer bionda non è essersi intascata dei soldi, il suo vero errore è aver mentito. Questa è la cosa che gli influencer non devono mai fare, pur facendolo.
Gli influencer devono farci credere alla verità di ciò che raccontano, anche se non è vera. Gli influencer devono dirci di acquistare certi prodotti perché loro li acquistano, anche se non è vero. Gli influencer devono consigliarci di seguire certi brand con cui condividono iniziative benefiche, anche se non è vero.
Marketing, beneficenza e… l’educazione del consumatore
Noi sappiamo – noi pubblicitari, noi brand, noi consumatori – di vivere nell’epoca della post verità in cui la cosa più complessa da comunicare è l’autenticità. Sappiamo che dietro una singola scritta – come quel titolo che ha funto da gancio e vi ha portati fin qui nella lettura – ci sono anni di studio, pratica, osservazione, errori e strategie.
Noi, noi tutti, nessuno escluso, sappiamo che i brand vogliono cambiare il mondo in meglio e far soldi. Non c’è nulla di male in questo, basta solo ricordarselo. Ed è questo che ci dà così fastidio dell’affaire pandoro: che non ci siamo accorti di quello che ci stava passando sotto al naso. Perché ci sentiamo immersi in un mondo di media che pensiamo di governare, anche bene, perché ne fruiamo ogni giorno, ma in realtà c’è sempre qualcosa che ci sfugge e quando la sospensione dell’incredulità decade e ci è chiaro che siamo stati “raggirati” ci arrabbiamo e ce la prendiamo con chi l’ha fatto seguendo le regole del gioco che noi stessi abbiamo accettato di giocare.
Ecco perché siamo noi, in primis, a fare un sacco di figure di merda.
Ops.
P.S. Il caso, così si dice, potrebbe approdare in Tribunale e nulla di tutto ciò che è stato scritto in precedenza potrebbe mai cancellare l’effettivo reato di truffa a danno dei consumatori, se mai la Procura dovesse procedere in questo senso e accertare effettivamente questo.