MASCHIO E FEMMINA IL MARKETING LI CREÒ

Tutto ebbe inizio da un attore, un paio di mutande e un tetto di New York. O forse prima.

Perché la pubblicità può creare il genere, e non solo limitarsi a imitarlo

Partiamo da una frase che potrebbe facilmente trasformarsi in un test per capire se una pubblicità è sessista oppure no: se devo far pubblicità ai reggiseni, posso mostrare una ragazza in reggiseno. Ma se devo farla a una linea di traghetti o a una marca di pompelmi, una ragazza in reggiseno che c’entra?

Questa frase è stata pronunciata da una delle più importanti creative della storia del nostro Paese, Annamaria Testa. Per intenderci l’autrice di questa pubblicità qui (non proprio una signora nessuno):

Bene. Questa frase può essere molto utile per comprendere il clima degli ultimi giorni, soprattutto se si sostituisce “ragazza in reggiseno” con “ragazzo in boxer”. Spieghiamoci meglio (anche se molti di voi avranno già compreso a cosa ci riferiamo).

Calvin Klein e Jeremy Allen, ovvero come stare in mutande su un tetto di New York e vivere contenti

Jeremy Allen White per Calvin Klein

Il caso è il seguente. Calvin Klein – famosissimo brand di intimo e non solo – sceglie l’attore Jeremy Allen White (quello di The Bear, ndr) per pubblicizzare dei boxer. Nello spot l’attore/modello si aggira per i tetti di New York sollevando pesi, mostrando gli addominali scolpiti e le cosce forti e i deltoidi definiti e potenti e lo sguardo da bello e impossibile. E mentre tutto questo accade lui è in mutande.

Cosa si sta reclamizzando, per usare un termine desueto? Dei boxer. Come lo si sta facendo? Mostrando un uomo in mutande. A chi è rivolta la pubblicità? Agli uomini, voi direte. Be’, sì e no.

Lo spot, già cliccatissimo e con milioni di visualizzazioni, ha ricevuto moltissimi commenti da donne e il tenore è il seguente:

Grazie Signor Calvin Klein, sinceramente tua, il mio utero

Una lacrima è appena scesa lungo la mia gamba

A parte la poesia di alcuni commenti come l’ultimo riportato, è bene ripassare alcune regole sul vero oggetto di questo spot, ovvero il sesso. Per un ripassino veloce, potete leggere qui

In fondo qual è il problema? Ve lo spieghiamo subito.

Calvin Klein e FKA Twigs, ovvero come stare in camicia e vivere scontentissimi

FKA Twigs per Calvin Klein

Calvin Klein fa un’operazione molto simile in UK ingaggiando la cantante britannica FKA Twigs. Peccato che però la campagna nel Regno Unito venga bloccata dalla ASA (Advertising Standards Authority), il comitato britannico che regola i contenuti pubblicitari nel Paese. Il motivo è l’ha presentata come un classico oggetto sessuale.

La polemica nasce appunto qui, perché Tahliah Debrett Barnett (il vero nome di FKA Twigs) accusa ASA di aver adoperato un doppio standard, ovvero di aver concesso una pubblicità sessualizzata su un corpo maschile e di non averlo fatto su un corpo femminile.

Ed è qui l’inciampo che mette tutti in difficoltà, gli utenti/consumatori tanto quanto gli addetti ai lavori della pubblicità. Infatti, il tenore dei messaggi sui social associati all’argomento è il seguente:

Tutto parte da un presupposto implicito sbagliato, e cioè che la donna sia costretta e obbligata da terzi a denudarsi, mentre l’uomo in quanto maschio lo faccia per sua mera volontà e decisione.

Mi sembra che si stia diventando come se non peggio dei talebani! Ma cos’è tutto questo pudore?!? Com’è diventato brutto e spento il mondo!

Le pubblicità (davvero) sessiste hanno una cosa in comune: non c’entrano niente col prodotto

“È sempre illegale UCCIDERE una donna?”
“Mostrale che è un mondo di uomini”
Quanto sessismo in pubblicità: ecco dove scovarlo (e come eliminarlo) -  ilSole24ORE

Le pubblicità – due “storiche” e due invece moderne, a dimostrazione del fatto che il sessismo è ancora qui – non hanno bisogno di commenti e valutazioni, ma sembra necessario sottolineare in particolare un concetto:

  1. La prima immagine reclamizza un servizio postale
  2. La seconda una cravatta
  3. La terza pubblicità promuove un servizio di mezzi elettrici
  4. La quarta un compro oro

Cos’hanno in comune tutte queste pubblicità? Nessuna di loro promuove prodotti o servizi sessuali o legati a parti intime – come, ad esempio, dei boxer da uomo o un reggiseno. Eppure, tutti hanno al centro il corpo – sessualizzato – di una o più donne. Questo ci fa capire molto non solo del mondo in cui viviamo ma anche del target di queste pubblicità: gli uomini. Gli uomini che solitamente avevano – e hanno – in massima parte potere di spesa.

Le donne sono oggetti di qualsivoglia natura – sessuali, culturali, pubblicitari – mentre gli uomini sono soggetti, ovvero agiscono, comprano. Quindi il doppio standard pubblicitario è insito non nei pubblicitari in quanto addetti ai lavori ma nei pubblicitari in quanto persone profondamente immerse nella cultura e nelle società del loro tempo. La pubblicità prende a piene mani dal contesto in cui si muove e soffre di bias culturali, come tutti noi. La vera domanda da porci, allora, è se la pubblicità può anche avere il potere di far cambiare la percezione culturale del mondo a cui si rivolge con una narrazione diversa, leader di un cambiamento. La risposta è sì, ma vediamo perché.

La rivoluzione può partire dalla cosa più maschia di tutte: la birra

Nel 2019 – quindi per i tempi della pubblicità un’era geologica fa – Budweiser fa un’operazione interessante: prende alcune pubblicità sessiste anni ’50 e le ribalta, mantenendo lo stesso stile vintage ma cambiando la posizione della donna.

Se negli originali la donna era oggettificata e talvolta sessualizzata, nei nuovi manifesti la donna è accanto all’uomo, vestita “come un uomo”, a fare le stesse attività di un uomo (mangiare pizza, bere birra e, se necessario, ruttare). È sempre una donna coi capelli cotonati, è vero, ma non è più servente: è accanto al suo compagno.

Questo è il possibile cambio di paradigma. Nessuno di noi, qui, è un ingenuo: Budweiser pubblica questa campagna dopo un’indagine di mercato dalla quale risulta che molte delle sue acquirenti, oggi, sono donne e sono loro, dunque, a essere un target a cui parlare. Ma dietro queste pubblicità c’è una storia da raccontare capace di riequilibrare gli standard, di non seguire solo gli istinti culturali ma di contribuire anche a crearne di nuovi.

Marketing e autodeterminazione dei modelli

Per tornare all’oggetto del contendere – nelle pubblicità di Calvin Klein c’è un doppio standard legato al genere dei modelli? – molti dei commenti apparsi in relazione alle pubblicità parlano di autodeterminazione. Della serie: se non sono loro a sentirsi usati come oggetti sessuali, perché dovremmo sentirci così noi?

C’è un doppio standard. Ma soprattutto, trovo davvero assurdo che, se a loro sta bene così gli si debba impedire di farlo. Ma anche SE fosse, non siamo liberi di sbagliare? Per me è allucinante

Ripetiamo tutti IL CORPO È MIO E CI FACCIO CIÒ CHE VOGLIO IO”

Fondamentale penso che nella libertà del proprio corpo ognuno possa fare il cazzo che vuole. Anche sessualizzarlo con serenità purché libera.

Si potrebbe continuare a lungo con commenti di questo genere – fun fact: chi commenta in questo modo, in massima parte, è un uomo – ma c’è da dire una cosa fondamentale in merito a questo.

Il testimonial è la personificazione, anche se temporanea, del brand. Presta il proprio corpo, la propria carne, al messaggio che il brand vuole diffondere. Non è lui/lei/lǝi il focus della faccenda: è l’interlocutore, il target, sono le persone che guardano. È il loro modo di sentire e percepire la pubblicità il vero obiettivo, non quello del soggetto delle foto/video – o perlomeno, non principalmente.

Se davvero i brand, attraverso le proprie campagne pubblicitarie vogliono essere leader di un cambiamento relativo all’identificazione di genere, non sono i sentimenti dei modelli la cosa più importante ma quello che rappresentano agli occhi di chi guarda.

O forse no, forse non è così.

Non abbiamo un’opinione perfetta e granitica in merito, abbiamo un sacco di dubbi su questa storia, e forse è giusto così. Perché chi fa il nostro lavoro deve per forza di cose amare le persone e amare osservare i loro comportamenti, non solo di acquisto. E non c’è niente di più contraddittorio e complesso dell’essere umano e dei sentimenti che lo spingono ad agire in un modo o in un altro. Ed è proprio questa la cosa più bella del nostro lavoro: il fatto che non metterà mai tutti d’accordo e genererà sempre dubbi, ogni genere di dubbio.

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