MARKETING E SALUTE MENTALE

La salute mentale c’entra eccome col marketing. E non solo perché aiuta i dipendenti migliori a restare ed essere più produttivi. Ma perché porta i dipendenti bravi che ancora non ci sono a unirsi all’azienda

Questo articolo nasce martedì 4 luglio 2023. Come spesso accade in tutte le aziende, con cadenza fissa l’intera be2be si è messa tutta insieme attorno a un tavolo per fare una riunione e capire lo stato dell’arte della nostra azienda. C’erano proprio tutti, dal Ceo collegato da remoto al copy junior, dal Traffic Manager ai responsabili amministrativi. Tutti, ma proprio tutti. Al centro della discussione le solite domande che si fanno tutte le aziende che stanno crescendo: come ampliarci, come gestire i flussi di lavoro, su quali progetti puntare, quali forze mettere in campo per migliorare, quali sono i nostri obiettivi del prossimo anno. Una riunione come un’altra, insomma.

A un certo punto uno di noi alza la mano e dice “oltre a tutto quello che abbiamo detto sull’operatività, ricordiamoci sempre che il modo di lavorare in azienda incide anche sulla salute mentale di ognuno di noi: qui dentro passiamo la maggior parte del nostro tempo, è importante entrare in ufficio e lavorare stando bene”. Silenzio.

Ecco che sul tavolo arriva un argomento di importanza fatale; eppure, è uno di quelli di cui le aziende si vergognano a parlare: il benessere psicologico dei dipendenti (e anche dei proprietari).

Da qui è nata tutta una riflessione interna su quanto stanno funzionando i nostri presidi interni su questo tema, sulla disponibilità da parte di tutti nel permettere agli altri di prendersi cura della propria salute mentale e su quanto, oggi, questa sia una delle leve decisive che portano i dipendenti a scegliere o meno di lavorare in un’azienda.

Se è vero che la risorsa più importante per un business sono le persone che vi lavorano, allora investire sulla salute mentale dei dipendenti è una delle strategie più remunerative che si possano attuare per migliorare l’azienda. Quindi sì: oltre alla componente umana ed empatica, nella salute mentale c’è anche una fortissima componente di marketing.

Ma partiamo dall’inizio.

Che cosa si intende per salute mentale?

Chiamato anche benessere mentale. È uno stato psicologico di tranquillità, una sorta di sensazione di pace che ci permette di non essere troppo influenzati dalle emozioni negative – chiediamo scusa agli psicologi se non è proprio esatto o completo, ma più o meno ci siamo capiti.

In pratica, è quella leva che ci permette di evitare e/o sopravvivere al burnout. Non solo è il modo che abbiamo per vivere meglio, ma è anche quello per lavorare meglio: immaginate di svegliarvi, piangere pensando di dover andare al lavoro, litigare con tutti i clienti o col capo o coi colleghi, andare in bagno a piangere. Ecco, tutto questo non vi consente di lavorare bene, essere produttivi, trarre soddisfazione dai vostri sforzi.

Se tutto questo accade la vostra salute mentale è a rischio ed è probabile che, prima o poi, sceglierete di abbandonare la vostra azienda per un’altra o semplicemente per prendervi una pausa (per chi di noi può permetterselo). Che significa questo per un’azienda? Semplice: perdere forza lavoro, perdere opportunità, perdere le idee e le forze delle persone. E poi ancora rimettere in moto la macchina della selezione: scrivi un annuncio di lavoro, lo pubblichi, ricevi i curriculum, ne selezioni alcuni per i colloqui, firmi carte, mandi mail amministrativi per avviare contratti eccetera eccetera in un continuo.

Salute mentale = reputazione aziendale = profitto

Come può il benessere dei lavoratori essere la migliore pubblicità per un’azienda? In realtà la risposta è piuttosto intuitiva: se un dipendente non ama particolarmente – usiamo un eufemismo – la propria azienda, tenderà a parlarne non bene all’esterno, incidendo sulla sua reputazione. Da qui la voce si sparge, i lavoratori migliori – quelli che con le loro idee, intuizioni e talenti sono in grado di far crescere un’azienda – andranno altrove, dove sanno di poter vivere senza stress anomali e controproducenti.

Cari brand all’ascolto – vabe’, è un modo di dire, anche se siete in lettura – state attenti: i vostri dipendenti sono la vostra migliore pubblicità. Se non li rispettate, se mettete loro una pressione insostenibile addosso, se li chiamate per lavorare anche quando sono in viaggio di nozze o all’ospedale non farete altro che avviarvi verso la strada della cattiva reputazione (che è lo step appena prima della perdita di quote di mercato).

Mettetevelo in testa: l’obiettivo n. 8 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite prende il nome di “Lavoro dignitoso e crescita economica”, legando inscindibilmente la crescita delle aziende alla dignità nel lavoro (che significa: se i vostri dipendenti stanno bene, produrranno di più e le vostre aziende cresceranno). Coincidenze? Io non credo (semicit., concedetecela).

Facciamo un esempio: il #Metoo della pubblicità italiana

Abbiamo aspettato a parlarne, attorno a questa storia c’è una marea di rumore e non volevamo unirci alle tantissime voci che hanno sentito l’esigenza di dire la propria. Non rivanghiamo oltre, se siete qui a leggere probabilmente sapete già di cosa parliamo: gli scandali sessuali all’interno di (almeno) una delle agenzie di comunicazioni più famose e potenti d’Italia.

Oggi le persone verso cui si muovono certe accuse e le aziende di cui facevano parte stanno subendo un forte attacco e una perdita in termini di reputazione. È possibile che, visto il prestigio, questa cosa col tempo si sgonfierà, purtroppo, ma il caso, nello specifico, ci ha insegnato qualcosa: la sensibilità sul tema, oggi, non è più quella di un tempo, il grado di accettazione è molto più basso di alcuni anni fa, non si è più disposti ad accettare determinati trattamenti. Ancor di più: il tema è sempre più spesso al centro delle cronache e i dipendenti sono sempre più disposti a parlare e non farsi più da parte.

E quindi?

E quindi le agenzie di marketing e comunicazione creativa come la nostra non possono riverniciare un’immagine severamente intaccata dalla cattiva reputazione, se non c’è una chiara scelta dal lato del business. Non facciamo miracoli, né vogliamo farli per chi non rispetta la salute mentale dei dipendenti.

In sostanza, credeteci, è molto più produttivo un buon commento da parte di un dipendente sotto a un post LinkedIn che un piano editoriale perfetto sulla company page. L’effetto moltiplicativo prodotto dalla partecipazione attiva, sincera e autentica dei dipendenti è insuperabile sia in termini di immagine (calda, emotiva, empatica) che in termini numeri raggiunti, di persone coinvolte, di memorabilità del brand.

Ma questo è possibile non imponendo ai dipendenti di parlar bene dell’azienda ma ponendo in essere azioni concrete all’interno dell’azienda che meritano, poi, di essere pubblicizzate.

Com’è finita la riunione in be2be?

Alla fine, la nostra riunione del 4 luglio è andata bene, ci siamo presi un momento per pensare e ragionare, prima di tornare al lavoro. E fra noi c’erano anche il Ceo e il management (quelli che comandano, direbbe qualcuno) ad ascoltarci e a ringraziarci di esserci stati, di aver portato l’argomento sul tavolo. Vi diremo di più: quando abbiamo avuto l’idea di parlare di tutto questo fuori, scrivendo quest’articolo, ci hanno detto “bravi, ottima idea”.

be2be non è la famiglia del Mulino Bianco, come si suol dire, ma è un’azienda che per crescere si pone delle domande, tutti insieme. Siamo anche fortunati, senza dubbio, perché parte del nostro management aziendale viene dal mondo del coaching aziendale, della formazione e delle Risorse Umane; quindi, la sensibilità al tema è presente, anche solo per deformazione professionale.

E il fatto stesso che voi siate qui a leggere un simile articolo sul nostro blog, be’, significa che di domande, per crescere, ce ne poniamo tante. E insieme proviamo a darci delle risposte (questa frase fa un po’ Gigi Marzullo, ma è una buona chiusura).

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