I brand di lusso tra perdite, resilienza ed editoria
Negli ultimi tempi abbiamo conosciuto diversi eventi: crisi del 2008, aziende in fallimento, aumento dei disagi psicologici, pandemie e crisi sanitarie globali. Sembrano le piaghe d’Egitto e invece sono solo gli ultimi 25 anni.
Eppure, nonostante tutto questo, c’è chi non solo ha resistito ai colpi della Storia ma è anche riuscito a crescere. Sono i brand del settore del lusso che nel 2024 hanno raggiunto il tetto dei 1.500 miliardi di euro. Insomma, all’apparenza il settore degli ricchi, ricchissimi, ultraricchi sembrava inscalfibile. E invece no
Secondo il Luxury Goods Worldwide Market Monitor 2025 di Bain & Company, realizzato in collaborazione con Altagamma, anche i ricchi piangono e il settore del lusso sta subendo delle flessioni che potrebbero portare a tre possibili scenari alternativi per quest’anno:
1- contrazione tra il 2 e il 5%, scenario più probabile secondo Bain & Co.
2- ripresa che potrebbe riequilibrare le perdite registrate finora (dal -2% a +2%)
3- la catastrofe: un calo tra il 5 e il 9%, il più improbabile degli scenari, a meno che non si continui con questo giochino del darsi fastidio tra potenze nucleari che potrebbe condurre a quella parola con la g. Che non fa proprio bene agli affari (di alcuni)
Ma com’è che siamo arrivati a tutto questo? Cosa attende i ricchi acquirenti dei brand più creativi al mondo? E soprattutto: le prossime generazioni, la Gen Z nello specifico, come approcceranno in futuro i brand che finora abbiamo osannato?
Successi e sconfitte
Esclusività, narrazione, aspirazione. Sono le tre caratteristiche che hanno reso il mercato dei beni di lusso – dagli orologi alla moda, dai gioielli agli yacht – florido e osservato con attenzione.
[inserire box con questa frase in evidenza:
Proprio ciò che ha contribuito a rendere i marchi del lusso brand di successo oggi è esattamente ciò che rischia di farli crollare. E se non crollare, perlomeno, cadere e sbucciarsi le ginocchia.]
Esclusività, per via del prezzo, che crea dei gruppi specifici di consumatori: quelli che possono permettersi di pagare una certa somma e quelli che non possono. I beni non vengono, dunque, desiderati in sé ma perché costano tanto: paghiamo un certo prezzo nella speranza che chi ci guarda dall’esterno attribuisca alle nostre persone un valore elevato. Indossa un Rolex ma migliaia di euro? Vuol dire che vale migliaia di euro, pensiamo.
Narrazione, o storytelling, come dicono quelli bravi. Un abito non è solo un abito ma il racconto che se ne fa, ciò che sta attorno: dalle mani che l’hanno cucito alla tradizione che ha portato a quel ricamo fino ai riferimenti che, attraverso l’abito, ne ha fatto quel sarto o Direttore Creativo. È il mercato del lusso ad averci insegnato che non si fa pagare solo il prodotto ma la storia che si può raccontare.
Aspirazione, ovvero l’unione delle prime due caratteristiche. Il consumatore tipo aspira ad avere quel bene, aspira a poterselo permettere, per raccontarsi al mondo attraverso di esso.
Ecco perché il mercato del lusso, anche in periodi neri, non subisce grossi cali: chi è ricco, normalmente, può sempre permettersi beni di lusso mentre chi è in difficoltà, psicologicamente, tenta il più possibile di poterseli ancora permettere perché non smettere di aspirare a quello status.
Qualcuno la chiama Teoria della Classe Disagiata. Noi la chiamiamo Adolescenza Permanente.
Eppure, proprio ciò che ha contribuito, nei decenni, a rendere i marchi del lusso brand di successo osservati con attenzione per comprendere trend e imparare lezioni di creatività, oggi appare esattamente ciò che rischia di farli crollare. E se non crollare, perlomeno, cadere e sbucciarsi le ginocchia.
Perché il lusso crolla?
Per gli stessi motivi per cui ha finora volato:
1.Troppo esclusivo
In una parola, i prezzi sono alti perfino per i ricchi: secondo HSBC, dal 2019 al 2024 nel mercato del lusso il prezzo dei prodotti è salito in media del 54%. Per intenderci, la borsa (iconica) di Chanel modello 2.55 è passata da 5.800 euro – che già non erano proprio l’equivalente dei 2 euro per il caffè al bar – a 11.100. Ma Louis Vuitton è riuscito a fare ancora meglio, facendo passare il bauletto in tela Damier da 800 a 1.600 euro.
Tecnica che ha consentito di aumentare fatturati e stipendi di manager e Direttori Creativi – coi rispettivi ego – ma ha portato zero innovazione, zero empatia, zero creatività in più sul mercato.
Perfino i ricchi, ora, si domandano se valga davvero la pena di spendere il doppio per un bene che, fino a poco tempo fa, era identico e costava la metà.
2. Troppo narrativo
I brand che hanno fatto della qualità (anche) della narrazione la propria cifra stilistica hanno forse esagerato.
Come scrive Fortune in un articolo di gennaio 2025, ora l’industria del lusso potrebbe incolpare se stessa: quando alcuni anni fa il mercato si è gonfiato in modo considerevole, i brand hanno investito poco in innovazione (e dunque in narrazione) e molto nel guardarsi allo specchio incensandosi. Alzando il prezzo per far cassa.
Tra il 2024 e il 2025 la leadership creativa del settore moda, ad esempio, ha subito una pressione enorme limitandosi a una rotazione di incarichi tra i brand: un Direttore Creativo va via e un altro, sempre molto noto e proveniente da un’altra maison di livello, arriva. Punto. La spinta creativa, secondo alcuni, si è limitata a questo negli ultimi anni.
Gli ultraricchi, gli Ultra High Net Worth Individual con un patrimonio netto stimato di 30 milioni di dollari. Quelli che insomma non ti possono stare simpatici per principio, perché invece tu hai difficoltà a pagare una cena a Milano
E soprattutto i manager hanno incolpato proprio quei Direttori Creativi delle ingenti perdite di quote di mercato e crollo delle vendite senza rendersi conto di aver investito poco in innovazione non di prodotto ma di brand puro: punti vendita fisici o digitali, esperienze fisiche in città target etc.
Il lusso non è solo prodotto, il brand di lusso non vende orologi o barche o gioielli ma modi di sentirsi e di apparire. Questo è stato fatto da pochissimi.
Per esempio da Tiffany e Phoebe Philo che ha aperto il proprio brand dopo aver guidato Celine: si tratta di brand che hanno portato enorme innovazione e, intuendo la crisi dei ricchi, si sono concentrati sulla fetta di mercato che non muore mai: gli ultraricchi, tecnicamente chiamati gli Ultra High Net Worth Individual (patrimonio netto stimato: 30 milioni di dollari. Quelli che insomma non ti possono stare simpatici per principio, perché invece tu hai difficoltà a pagare una cena a Milano). Questi brand hanno infatti scelto di innovare in modo fortissimo il settore, alzando alle stelle qualità e prezzi, abbassando il numero dei prodotti e concentrandosi sul 2% dei consumatori luxury che però, da soli, coprono più del 40% del totale delle vendite. Una strategia, insomma, che è andata oltre la mera bontà del prodotto ma ha fatto una nuova narrazione di sé.
Un esempio, però, difficilmente replicabile su tutti. Per un motivo specifico.
3. Troppo vergognoso
Si chiama luxury shame: i benestanti che prima volevano essere considerati quanto la roba che portavano addosso, che guidavano, su cui viaggiavano, dove dormivano (cioè, costosi e di valore) oggi se ne vergognano. Si vergognano, cioè, di farsi vedere con il Rolex al polso, in vacanza in hotel 5 stelle e a bordo di un’auto di lusso. Ciò che prima era aspirazione, oggi è odio sociale. Mentre gli altri non arrivano a fine mese, sono poveri pur lavorando oppure vengono bombardati dall’altra parte del mondo, come puoi, tu, indossare un Rolex?
Quello che prima era un obiettivo aspirazionale oggi è il timore diffuso di essere attaccati col Super Liquidator a Barcellona sotto le urla “via i turisti ricchi!” (se leggendo del super liquidator hai sentito un brivido nostalgico, puoi cliccare qui e sentirti bambino).
E questo, nello specifico, sotto la spinta della frattura sociale che le nuove generazioni, la Gen Z su tutte, stanno operando. Generazioni con più problemi economici dei propri genitori, con più disillusione nei confronti del mercato luxury e una generale rivalutazione del proprio rapporto con il lusso stesso.
Copertina Arts & Culture, volume I
Il caso Chanel: i cari vecchi strumenti culturali
Secondo Bain & Co., nella nota al suo Report, i marchi del settore lusso dovrebbero rivedere le basi della loro definizione di prodotto e di marca, ” ancorandosi a brand identity ben specifiche e un’architettura dei prezzi ben ponderata”. Continuando, cioè, a ispirare il target senza spaventarlo.
Rientrano, in questo ambito, nuove iniziative di brand identity che non insistono sul prodotto ma, giustamente, su ciò che sta attorno. Per esempio, Chanel ha da poco spento le sue (prime) cento candeline in Gran Bretagna e per festeggiare ha deciso di lanciarsi su un mezzo piuttosto vintage: la carta stampata, attraverso la rivista Arts & Culture (disponibile dal 28 giugno in 20 librerie indipendenti in tutto il mondo).
Il suo target, per la narrazione fatta da sempre dalla maison francese, è sempre stato quello dell’eleganza e della cultura. E infatti Chanel cosa fa? Sceglie di fidelizzare e avvicinarsi in modo più stretto ai suoi consumatori, rendendoli lettori. Ampliando il novero dei beni prodotti dall’azienda e agganciando anche coloro che, in precedenza, mai avrebbero pensato di avvicinarsi a questo tipo di brand.
Chanel ha aumentato sì i prezzi, ma si è resa anche al passo coi trend del momento – spazi dedicati come newsletter e riviste in cui si urla meno e si sta più distesi, per dirla bene – mettendo “in primo piano narrative mancanti, promuovendo la collaborazione tra diverse discipline e contribuendo a dare risalto a idee trasformative che impattano positivamente cultura e società” ha detto la Direttrice della rivista, Yena Peel, Presidente del Fondo Cultura di Chanel.
Chissà se anche i brand del lusso si renderanno conto che esistono dei limiti. Se non economici, perlomeno, umani.