Perché a volte raccontare poco è raccontare meglio. Tre regole.
Questo dei marketer e comunicatori è un mestiere difficile: è sempre una scommessa col destino. Tu raccogli dati, fai ricerca, test su test e pensi di poter prevedere il comportamento delle persone e indirizzarle, ma non sempre va così. Quando va bene, è sempre tutto molto bello e le fatiche del lavoro sono ripagate dal risultato positivo; quando va male, però, va davvero molto male.
LO AMMETTIAMO: È (ANCHE) COLPA NOSTRA
Prima la pubblicità era un bene destinato a restare. Oggi, se va bene, dura un giorno.
Prima erano poche le aziende che potevano permettersi la reclame. Oggi è impossibile navigare senza incappare in tremila annunci che ti impediscano la lettura di un qualunque articolo online.
E questo è un problema. Perché significa ridurre in modo significativo il livello di attenzione di un utente/consumatore: se vede un annuncio solo, se lo ricorderà; se ne vede venti, a malapena gliene resterà impresso uno solo.
La colpa di questo è certamente delle aziende che hanno riconosciuto col tempo i vantaggi (innegabili) della pubblicità e della comunicazione. Ma non possiamo negare che sì, la responsabilità è anche dei reparti marketing e delle agenzie di comunicazione. Perché la tecnica per farsi notare di più davanti a utenti con le teste sempre più spente, come spesso accade, è stata la corsa a chi urla di più. Chi è più moderno, più pop, più minimal, più barocco, più colorato, più allineato ai trend, più controcorrente, più tutto.
Il risultato è che ci sembra di aver già visto tutto. Di aver già provato tutto. Di aver già pensato a tutto. O forse no, forse c’è ancora speranza.
SOTTRAZIONE, LA PAROLA CHIAVE
Il punto non è smettere di fare pubblicità – anche noi dobbiamo pagarci gli stipendi, del resto, e soprattutto le aziende che fanno comunicazione sono quelle che hanno le più alte percentuali di crescita, sono i dati a dirlo, quindi conviene a tutti. Il punto è, piuttosto, smetterla di sovraffollare il mercato, i canali di comunicazione, i trend, gli utenti/consumatori.Anziché mettere ancora roba nelle campagne pubblicitarie, togliamola. E quindi, andiamo per sottrazione.
Meno canali
Prima regola: se non serve stare su una piattaforma, su un social, su un giornale o in una campagna out-of-home, perché ci state? Iniziamo a frequentare solo i posti giusti e adatti a noi e a come siamo. Che nel linguaggio marketing significa: iniziamo a rispettare il nostro posizionamento e a fare le cose con coerenza. Alle aziende diciamo: basta pensare a TikTok come the place to be. Ai colleghi marketer e comunicatori: basta accettare tutte le richieste del cliente. Diciamo no.
Meno trend
Seconda regola: non neghiamo il fatto che tutti noi guardiamo i trend. Ognuno studia i trend, per capire come usarli. Ogni vero marketer, almeno una volta nella vita, ha pensato “magari faccio un po’ di instant marketing e faccio un meme su questa prima serata di Sanremo”. Molti, però, sono stati in grado di resistere.
Ci sono delle volte in cui seguire un trend può essere positivo perché totalmente allineato al tono di voce e al posizionamento del brand. In quel caso, via libera a tutto per cavalcare l’onda del trend rumoroso del momento. Ma se non è così, se quel trend coi vostri contenuti, valori, posizionamento non è in linea, allora, perché? Perché farci tutti del male pubblicando l’ennesimo meme sul cantante che ha steccato, su quello che ha distrutto il palco, su quello che ha baciato un uomo – che orrore, signora mia!
Perché pubblicare contenuti che non dicono niente, non spostano niente, non servono a niente?
Meno utenti
Terza regola: tuteliamo gli utenti. Aiutiamoli. Difendiamoli dalla bruttezza che si vede in giro in comunicazione e nel marketing.
Poverini, questi utenti digital e offline. Poverini, sono vittima di un bombardamento e non se ne rendono conto.
Ogni tanto, quando facciamo le nostre campagne di comunicazione, oltre al brand, pensiamo anche all’utente: questa cosa per lui/lei/ləi è utile e interessante? Dà valore aggiunto? Resterà impressa? Se la risposta è no, evitiamo di creare quel contenuto. Perché, se l’utente vedrà il brand solo nei posti giusti, nel modo giusto e senza esserne ossessionato perché lo vede ovunque, credeteci, lo stimerà maggiormente e ci farà più attenzione. E non penserà “oddio, ancora questi rompiscatole?”.
Più tempo per pensare
Regola bonus: prendiamoci il giusto tempo per pensare. Non buttiamo lì una campagna rumorosa perché il cliente ha fretta di uscire e pubblicizzare. Fermiamoci e riflettiamo, poniamoci le domande delle tre regole precedenti e facciamo un bel respiro. È molto probabile che dopo esserci presi questa pausa di riflessione, creeremo meglio.
E soprattutto, prendiamoci il tempo per scrivere una lettera breve. Perché di quelle lunghe non ne possiamo più.
In sintesi, se possiamo trarre uno spunto da questo piccolo pamphlet contro il rumore dei brand, sarebbe questo: non smettiamo di pubblicizzare, smettiamo di farlo male. Facciamo un’analisi di quello che ci serve veramente e soprattutto seguiamola. Altrimenti giocheremo a chi urla di più. Ed è un gioco che vincono di solito non i più bravi, ma i più forti.
P.s. La frase d’apertura di questo articolo (“Vi scrivo una lettera lunga perché non ho avuto il tempo di scriverne una breve”) onestamente non sappiamo di chi sia: alcune fonti parlano di Blaise Pascal nelle Lettres Provinciales (1656); altri citano Voltaire, ma non dicono dove si troverebbe la citazione – cosa che ci fa propendere per l’ipotesi Pascal. È una cosa che capita spesso su internet: per rendere virale una frase la si attribuisce a una personalità nota e si creano le leggende metropolitane.
Così, giusto per dir qualcosa.